La solitudine di Anna Karenina

31.12.2023

di Franco Travaglio


"Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo." Con questa citazione, proiettata sul tulle che funge da quarta parete, si apre Anna Karenina, l'allestimento scenico del classico di Tolstoj, diretto da Luca De Fusco, che firma anche l'adattamento a quattro mani con Gianni Garrera.

E la famiglia infelice, quella che gravita intorno all'immortale maschera di Anna, è il microcosmo su cui si punta l'attenzione drammaturgica della pièce, usando la lente di ingrandimento dell'analisi psicologica, l'occhio ironico delle disillusioni e l'implacabile prosa che denuda l'animo umano e le ipocrisie piccolo-borghesi ricamando periodi, battute, descrizioni ed epigrammi sui chiaroscuri di un mondo in decomposizione, la famiglia come castello di vuoti precetti moralistici demoliti da una donna che osa addirittura avere sentimenti liberi e non sottostare alla dittatura delle apparenze sociali.

Galatea Ranzi è magnetica mentre scende la china del baratro della protagonista, sempre più rassegnata alla propria auto-distruzione, man mano che si scontra con l'impossibilità di trovare una propria collocazione esistenziale senza sacrificare la propria voglia di amare al di fuori degli steccati che la società le impone con freddo e sadico cinismo.

A sottolineare l'assenza di umanità ed empatia, i personaggi interagiscono chiusi nella propria lontananza, dialogano chiusi da fasci di luce che li separano, si scambiano offerte di matrimonio da ballatoi incomunicabili.

La recitazione gioca su tre binari. C'è uno stile falso e lezioso intonato dalla pirandelliana corda sociale delle bugie pietose, della finta gentilezza, dell'amore di comodo. Poi c'è la cruda freddezza degli sprazzi di verità che vengono a spezzare le disillusioni e a riportarci su un piano di spietata realtà. E poi ci sono battute extra-drammatiche, citazioni del romanzo, che come didascalie ci spiegano il non-detto, i sottotesti, le intenzioni: ci restituiscono assaggi letterari della preziosa prosa Tolstojana e sortiscono un effetto straniante, molto ronconiano, nello scandagliare la profondità dell'animo dei personaggi.

Questa tripla stratificazione linguistica agisce da filtro per farci entrare in una società sicuramente lontana dalla nostra, anche ne condividiamo la solitudine, le difficoltà comunicative, l'estraneità sociale così come la gogna che accompagna chi osa mettere in discussione il conformismo, oggi spostata dalle maldicenze pettegole da salotto alla cloaca dei social, come lo stesso De Fusco sottolinea nelle note di regia.

La domanda che ci si può porre dopo la visione di questa comunque riuscita messa in scena, e dopo aver assistito alla tragica fine della protagonista, (vediamo con molto realismo la fatale locomotiva incombere verso la platea..) riguarda proprio l'opportunità e la motivazione di presentare questa storia oggi. Ci sarebbe forse stato spazio per una rilettura più coraggiosa e spiazzante con riferimenti culturali, musicali di costume che ci aiutassero a mettere in relazione il destino di Anna con quello della donna del 2023, magari immaginando una chiave di lettura meno pessimistica: troppe donne soccombono in tutto il mondo sotto il peso di vari tipi di violenza e forse sarebbe il caso che il teatro immaginasse un destino finale di riscatto e disvelamento catartico.

Perché la felicità di una famiglia (ne esistono poi di felici?) si deve costruire educando alla libertà, all'apertura mentale, all'indipendenza, e il teatro può molto in questo processo.

Franco Travaglio

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