Così è se vi pare

21.02.2024

di Alessandro Caria

BOLOGNA, febbraio 2024 – Un gioco degli specchi e di rifrazione delle immagini e, quindi, delle presunte realtà, domina la scena del COSI, È (SE VI PARE) andato in scena al Duse di Bologna e diretto da Geppy Gleijeses, che porta in scena il «canonico» testo di Luigi Pirandello con un cast di primo livello. Ho scritto, deliberatamente, «canonico», perché questo copione (1917) è una delle pietre miliari del relativismo pirandelliano, ma anche perché costituisce una partitura assai serrata, è scritto – bachianamente – in forma di canone. "È mia vecchia abitudine dare udienza, ogni domenica mattina, ai personaggi delle mie future novelle". Ecco l'incipit della novella pirandelliana "La tragedia d'un personaggio" che risuona con la voce di Glejeses a sipario ancora chiuso e suggerisce un punto di vista distaccato e persino ironico, al fine di affrontare le angustie: quello della lontananza, ovvero del cannocchiale rovesciato. L'idea della messa in scena, infatti, poggia su un'intuizione del celebre critico Giovanni Macchia, rifacendosi al concetto del cannocchiale rovesciato che ci suggerisce come l'ironia pirandelliana nasce, appunto, dal poter guardare ai fatti della vita, specie quelli che più ci addolorano e coinvolgono, con distanza, meno grandi di quanto sono veramente; apparendoci piccole quelle situazioni così esasperanti, ecco che possiamo riderne senza lasciarci travolgere da sentimenti negativi e poco fruttuosi per noi. Le suddette parole di Pirandello lasciano poi spazio a quelle del regista, che dichiara di aver voluto sminuire e ridicolizzare il coro borghese di vani curiosi. Sul palcoscenico completamente al buio compaiono su degli specchi degli ologrammi tridimensionali alti 50 centimetri, donnine e piccoli uomini – i personaggi della commedia – che si affannano inutilmente per scoprire una verità futile. Perché li vediamo così piccoli? Perché piccola è la loro sfera d'azione, piccolo il loro metro di giudizio, piccole le questioni di cui si occupano. Vi si dibatte il problema centrale dell'ontologia di Pirandello, il problema dell'essere e del parere, del «fantasma» e della realtà della verità nostra e di quella degli altri.

Chi dice, appunto, la verità, in quella cittadina senza nome, in quell'indiscreto, pettegolo microcosmo medioborghese? La signora Frola o il signor Ponza, che si accusano l'un l'altro di pazzia, sostenendo la prima che il genero vive con sua figlia, ma è convinto di vivere con un'altra, la sua seconda moglie; ribattendo il secondo che quella con cui vive è la sua seconda moglie davvero, ma occorre far credere sia la prima, la figlia della Frola, perché costei non ne muoia di dolore? Sono pazzi forse tutti e due, è pazza la giovane signora Ponza, o sono pazzi coloro che vogliono andare sino in fondo a quella miserevole storia di onesta, reciproca simulazione? Non sono forse loro i pazzi, nella loro assurda caparbietà?

La semplice, ma funzionale chiave di lettura è questa: il coro di piccoli borghesi di provincia che s'erge, non richiesto, a tribunale popolare del tormentato segreto rapporto tra l'anziana signora Frola e suo genero il signor Ponza è, già di per sé, pubblico del dramma. La delega sociale, che questi improvvisati inquisitori, nella loro arroganza, si attribuiscono a nome e per conto della collettività – quella cioè di discernere, nelle opposte versioni dei due interessati, la menzogna dalla verità, la normalità dalla pazzia – non è che un aspetto della delega teatrale, che gli spettatori, ben volentieri, affiderebbero loro, tanto si sentono investiti delle stesse perentorie domande, delle stesse brusche richieste di prove documentarie. Se, lassù, nel salotto borghese del copione circola un'aria malsana, la stessa morbosa indiscretezza serpeggia in platea.

E' questa, per l'appunto, la via che Gleijeses, non meno caparbio dei suoi personaggi, imbocca, scegliendo di fare di COSI, È (SE VI PARE) un falotico processo della borghesia al «diverso da sé», un processo, tuttavia, in cui l'inquisitore diventa inquisito, il presunto innocente il reale colpevole. E i suddetti specchi moltiplicano, triplicano i personaggi, deformandoli e catapultandoli altrove, aggiungendo altro mistero al mistero.

Ma quando i tre malcapitati son fuori, li vedeste, quei crudeli persecutori, scatenarsi in una ridda di congetture, in una tregenda di supposizioni atroci: e muoversi, appunto erratico corteo, alla ricerca di una prova, e urlare frenetici, e dibattersi pazzi, si, pazzi d'ira, pazzi del non capire, pazzi del non sapere, e percuotersi selvaggiamente, e schiantare le sedie all'intorno, esausti dal loro stesso demone, il vano demone della certezza.

Spiace in casi simili distinguere, ma un cenno almeno, a parte, meritano Milena Vukotic (Frola) e Pino Micol (Laudisi). Esempi di eleganza recitativa, stile, profondità del sottotesto, raffinatezza nelle movenze. La Vukotic è sempre delicata, dolce, eppure potente e mai distante dal personaggio. Che privilegio assistere alla sua performance: intanto, nella scansione del testo, di cui restituisce tutta la novità sintattica e la pregnanza lessicale, con una dizione scabra che leviga le parole come ossi di seppia; ma, soprattutto, con la controllatissima varietà dei toni, di una dignità alta e severa al suo primo apparire; poi dimessa e querula nella seconda sua comparsa; infine tesa sino allo spasimo nella ribellione di chi chiede i1 rispetto dell'offesa persona umana. E Pino Micol così possente, musicale nel porgere le battute e raffinato nel recitare, anche quando rimane in silenzio. Una sua postura particolare, o un certo suo modo di osservare sono più potenti di mille e mille parole. E poi un ottimo Gianluca Ferrato, un Ponza iroso e maligno, un attore che si vorrebbe veder recitar più sovente.

Alessandro Caria

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