Guerre e Paci

10.02.2025

di Franco Travaglio


Una riduzione teatrale del monumentale tomo Guerra e pace di Lev Tolstoj, in tempi di comunicazione istantanea, slogan a presa rapida e espressioni artistiche di sempre più corto respiro sembra davvero un'impresa titanica. Come ridurre un apparato immenso di eventi, riflessioni, passaggi storici epocali avendo a disposizione solo due ore di spettacolo e poco più, dieci attori dieci e una scenografia fissa?

Gianni Garrera e il regista Luca De Fusco si affidano in primis alla solida espressività, all'impostazione imperturbabile di attrice classica di un'interprete della classe e della bravura di Pamela Villoresi, che unisce sarcasmo, passione, affranta desolazione in un personaggio, Annette che rappresenta la saggezza e l'impotenza di una donna che tenta di mantenere la lucidità mentre intorno a sé i russi sono in piena sindrome di Stoccolma. In guerra con Napoleone ma affascinati dal suo carisma, vittime della guerra o entusiasti suoi sostenitori, violenti, fedifraghi, alla deriva o ancorati a solide certezze che si rivelano fallaci, tutti sembrano sfaccettature di un crollo, nuance di un disfacimento progressivo che nessun ideale riesce a riscattare.

Gli attori si muovono sull'impervia scalinata disegnata da Marta Crisolini Malatesta (anche costumista) affiancata da pareti arse, lampadari crollati e scure proiezioni di stampo cinematografico di Alessandro Papa che le livide luci di Gigi Saccomandi amalgamano in un'atmosfera pregnante e decadente.

Molto affascinanti anche le musiche di Ran Bagno, con un ossessivo tema di violino che accompagna l'evolversi di azione e personaggi.

Se il tema è attualissimo, non aspettiamoci facili paralleli con le cronache di guerra di questi giorni. La Russia napoleonica non è la Russia di Putin, e non sappiamo cosa pensano oggi i suoi abitanti perché la propaganda ha cancellato le voci dei russi di oggi.

Inoltre, invece di facili rimandi che lascerebbero il tempo che trovano, è molto più interessante osservare il tema da una certa distanza, dal lato sociologico più che storico-politico.

Così come le relazioni tra i sessi, i ceti e i gradi non sono certo più quelli di quell'epoca: una figlia non sarebbe forse più succube del padre malato e possessivo, una donna non si rovinerebbe più perché sedotta e abbandonata, e il disfacimento crepuscolare oggi non è più collettivo, nazionale, comunitario, ma chiuso nel privato di un individualismo sfrenato. Eppure Tolstoj continua a parlarci perché nel mutare delle forme e delle temperie storiche l'uomo continua a cadere nei medesimi errori, a incappare nelle medesime tragedie, a passare senza imparare nulla dalla noia della pace senza riscatto all'insensata distruzione della guerra.

Franco Travaglio

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