Una riduzione teatrale del monumentale tomo Guerra e pace di
Lev Tolstoj, in tempi di comunicazione istantanea, slogan a presa rapida e
espressioni artistiche di sempre più corto respiro sembra davvero un'impresa
titanica. Come ridurre un apparato immenso di eventi, riflessioni, passaggi storici
epocali avendo a disposizione solo due ore di spettacolo e poco più, dieci
attori dieci e una scenografia fissa?
Gianni Garrera e il regista Luca De Fusco si affidano in
primis alla solida espressività, all'impostazione imperturbabile di attrice
classica di un'interprete della classe e della bravura di Pamela Villoresi, che
unisce sarcasmo, passione, affranta desolazione in un personaggio, Annette che
rappresenta la saggezza e l'impotenza di una donna che tenta di mantenere la
lucidità mentre intorno a sé i russi sono in piena sindrome di Stoccolma. In guerra
con Napoleone ma affascinati dal suo carisma, vittime della guerra o entusiasti
suoi sostenitori, violenti, fedifraghi, alla deriva o ancorati a solide
certezze che si rivelano fallaci, tutti sembrano sfaccettature di un crollo,
nuance di un disfacimento progressivo che nessun ideale riesce a riscattare.
Gli attori si muovono sull'impervia scalinata disegnata da
Marta Crisolini Malatesta (anche costumista) affiancata da pareti arse,
lampadari crollati e scure proiezioni di stampo cinematografico di Alessandro Papa
che le livide luci di Gigi Saccomandi amalgamano in un'atmosfera pregnante e
decadente.
Molto affascinanti anche le musiche di Ran Bagno, con un ossessivo
tema di violino che accompagna l'evolversi di azione e personaggi.
Se il tema è attualissimo, non aspettiamoci facili paralleli
con le cronache di guerra di questi giorni. La Russia napoleonica non è la
Russia di Putin, e non sappiamo cosa pensano oggi i suoi abitanti perché la
propaganda ha cancellato le voci dei russi di oggi.
Inoltre, invece di facili rimandi che lascerebbero il tempo
che trovano, è molto più interessante osservare il tema da una certa distanza,
dal lato sociologico più che storico-politico.
Così come le relazioni tra i sessi, i ceti e i gradi non
sono certo più quelli di quell'epoca: una figlia non sarebbe forse più succube
del padre malato e possessivo, una donna non si rovinerebbe più perché sedotta
e abbandonata, e il disfacimento crepuscolare oggi non è più collettivo,
nazionale, comunitario, ma chiuso nel privato di un individualismo sfrenato.
Eppure Tolstoj continua a parlarci perché nel mutare delle forme e delle
temperie storiche l'uomo continua a cadere nei medesimi errori, a incappare
nelle medesime tragedie, a passare senza imparare nulla dalla noia della pace
senza riscatto all'insensata distruzione della guerra.