I 7 RE DI ROMA
di Alessandro Caria
ROMA - Enrico Brignano riporta in scena con straordinario successo I 7 RE DI ROMA al Teatro Sistina, la celebre favola musicale scritta da Gigi Magni e musicata da Nicola Piovani e diretta originariamente da Pietro Garinei nel 1989, che vide mattatore un Gigi Proietti in stato di grazia. Garinei lesse alcuni articoli riguardo la storia dei Re di Roma scritti da Magni per l'edizione romana del Corriere della Sera ed ebbe la felice intuizione di trarne un musical stile Broadway. All'epoca, il giovane Brignano era allievo di Proietti e vide lo spettacolo più volte, innamorandosene. Oggi lo riporta in scena in una versione aggiornata e più corta, adatta – si dice – ai tempi attuali. A chi scrive ha fatto di certo male non ritrovare il personaggio di Enea e il taglio di uno dei più bei numeri musicali della commedia, "L'amore va da sé", con una coreografia che omaggiava i vecchi musical di Fred Astaire e Ginger Rogers in chiave capitolina. Ecco, se c'è una cosa che manca a questo revival, nonostante la generosità e la grande bravura di Enrico Brignano, è quella propensione al kolossal delle commedie musicali della Premiata Ditta Garinei e Giovannini. Quella attesa nello scoprire ad ogni nuovo spettacolo cosa riservava l'apertura di quella scatola magica che era il palcoscenico del Sistina, confezionato con gusto ed eleganza prima da Giulio Coltellacci e poi da Uberto Bertacca. Il fascino, a tratti eccessivo, di questo spettacolo è stato innanzi tutto visivo. Proponeva invenzioni a getto continuo fin dal primissimo istante, quando, allo spalancarsi dell'anfiteatro nero così simile al Colosseo, il carro dorato del Sole attraversa la volta scenica e, con la sua luce aranciata, illumina un plastico dei sette colli lambiti dal Tevere con la sparsa umanità pastorale che li abita. Lo scenografo Uberto Bertacca sembrava aver creato qui il capolavoro più barocco e costoso della sua vita. Utilizzò la struttura dell'anfiteatro come un contenitore che, ruotando su se stesso, spaccandosi e moltiplicando le proprie sezioni diventa cinta muraria, prigione, senato, cloaca. Oppure, più semplicemente (si fa per dire), fa da sfondo all'apparizione della nave di Enea, che giunge fin quasi in proscenio con tanto di vela spiegata e di rematori agli scanni; al ponte di Orazio Coclite; all'ingresso della statua di Giove Albano che fulmina Tulio Ostilio con scintille azzurrine che' sfrigolano dalle braccia tese: un antenato di Mazinga. Le pur belle scene di Marco Calzavara mancano di quelle soluzioni che incantavano e stupivano il pubblico.
Tornando al presente, nell'infuriare delle recenti e violente polemiche sul degrado e l'invivibilità della metropoli una volta "caput mundi", ecco inserirsi petrolinianamente Brignano che omaggia il suo Maestro riproducendo spesso movenze e tic, a partire dal suo ingresso in scena nei panni del dio Tiberino, quello da cui avrebbe preso nome il Tevere e sfrutta al meglio il copione di Magni che è un ribollire di personaggi, di situazioni, di battute. Un libretto fondato su un linguaggio che pesca dalla tradizione e dalla letteratura capitolina, con una propensione più per Pascarella che per Belli. Magni rievoca Roma e i suoi re col piglio del fabulatore che sa di inoltrarsi su un sentiero infido dove nulla è certo, tutto è precario, ipotetico, travestimento simbolico o leggendario di una verità che non conosceremo mai. E allora eccolo farsi divulgatore e filologo, cercare l'origine di certi nomi. Raccontandoci la storia di Roma, Magni cerca il lato umano dei suoi labili personaggi. Romolo è attanagliato dal dubbio di non essere mai esistito; il vecchio Numa Pompilio s'inebria nelle tardive ebrezze d'amore procurategli dalla ninfa Egeria; Tulio Ostilio esprime tutta la propria avversione agli dei; Anco Marzio briga come un politico dei nostri giorni per diventare «un re di programma». E c'è poi Servio Tullio, vittima di una crisi d'identità, un pirandelliano «ante litteram» che può dire «perché, vedete, noi siamo uno, e nessuno...» in un gioco di citazioni. Mi preme sottolineare, nell'adattamento del copione operato da Manuela D'Angelo, l'attenzione e la sottolineatura nel testo del tema del femminicidio, purtroppo sempre presente ieri come oggi.
Brignano riprende con saggezza la regia di Pietro Garinei, si preoccupa di dar coesione a questa materia frantumata ed episodica. Esplorando il fiabesco, mostra i diversi gradi della comicità, dalla più terragna alla surreale, sostenuto dalle eleganti musiche di Nicola Piovani e dei movimenti coreografici poco accattivanti di Thomas Signorelli, che si segnalano soprattutto per la loro non invadenza. Il mattatore della serata è assolutamente lui, Brignano che si prodiga fino allo stremo delle forze per interpretare i sette re e un'altra mezza dozzina di personaggi, cambiando ogni volta registro, premendo sul pedale della caratterizzazione con effetti irresistibili. Da segnalare il suo Bruto, quasi un fool shakesperiano, in cui si distacca dal Maestro Proietti nella caratterizzazione. Perché non provare ad allontanarsi dall'originale pure nelle vesti degli altri personaggi? Resta comunque una grandissima prova. Godibilissimo, al suo fianco, Simone Mori che, nella parte di Giano bifronte, fa da narratore e da collante ai vari episodi. Con loro una compagnia di giovanissimi (ottima la prova di Elisabetta Tulli e Giovanna D'Angi) che, oltre a recitare con fresca «verve», sa anche cantare e ballare. Risultato: un successo vivissimo, scandito da molte risate, da frequentissimi applausi e salutato, alla fine, da un'autentica ovazione.