Il Cappello di Rota incanta la Scala
Quanto bisogno di aria fresca, di novità, di idee c'è nel melodramma italiano? La domanda sembra oziosa tanto sono polverosi certi cartelloni e ripetitive le programmazioni, tanto cervellotici appaiono i tentativi di certi registi di dare una patina di novità a titoli triti, spesso forzando le drammaturgie con riambientazioni improbabili tese unicamente a creare "il caso" e "lo scandalo", con risultati sempre più artificiosi e stranianti.
In questo panorama arriva come una boccata d'aria fresca la produzione de Il Cappello di paglia di Firenze di Nino Rota firmata dal giovane regista Mario Acampa e debuttata alla Scala di Milano lo scorso 4 settembre.
Lo spettacolo è letteralmente un giocosa giostra che esalta le delizie compositive rotiane, che ruotano a ruota libera sulla scena girevole su cui è montato un sontuoso edificio, praticabile su tutti i lati, sorta di casa di bambole per il divertimento di tutti. Si tratta però, ça va sans dire, di una "Chapellerie", una ditta di cappelli a conduzione famigliare: la "E. Rota e fils". Ma l'ambientazione non appare minimamente forzata, anzi: si tratta di una cornice drammaturgica che non travisa la narrazione che il compositore, coi buoni uffici della mamma Ernesta (la E. in ditta? O sta per Ercole, il padre?), trasse in musica dall'omonima farsa "Un chapeau de paille d'Italie" di Eugène Labiche. Siamo nel campo dei sogni, tutta la vicenda è il parto della fantasia onirica del protagonista: Fadinard è un semplice operaio, nemmeno specializzato, della cappelleria, in cui si occupa delle pulizie. Si incapriccia però di una collega che sta scherzosamente provando un velo da sposa, e la disattenzione del colpo di fulmine distrugge il cappello di un rivale. Ne nasce un match di boxe in cui ha la peggio, e persi i sensi dopo il kappao, salta direttamente al giorno del sospirato matrimonio. Qui parte la rocambolesca farsa labichiana dove un cappello compromettente viene mangiato dal cavallo del promesso sposo, sequestrato dall'amante della proprietaria del copricapo finché non ne troverà un altro esemplare da portare al marito di lei a provare la sua innocenza. Parte quindi un fuoco di fila di equivoci, buffe minacce (del padre della promessa, sempre pronto a mandare tutto a monte), peregrinazioni (gli invitati alle nozze sono costretti a seguire le peregrinazioni di Fadinard alla ricerca del cappello) e agnizioni (si scopre, come esige il surreale, che il cappello era sempre stato lì a portata di mano, nascosto nel pacco di un regalo di nozze).
L'enorme casa girevole (le scene sono di Riccardo Sgaramella, mentre a Chiara Amaltea Ciarelli si devono i rutilanti costumi) si trasforma con grande abilità man mano da cappellificio (bella la facciata con l'insegna e mattoni a vista) a casa dello sposo, a magazzino della modista, a villa della contessa, diventa addirittura il commissariato con le relative celle in cui gli invitati vengono rinchiusi, al colpo di uno dei tanti 'malentendu'.
Acampa "giostra" (è il caso di dirlo) cantanti, balletto, luci, costumi, musiche, effetti con sapiente senso del ritmo, servendo e rispettando ogni sfaccettatura della partitura con dispiego di idee, arguzia e citazioni a piene mani (una su tutte l'omaggio alla iconica 'spaghettata' di Totò in Miseria e nobiltà). Ci si diverte come difficilmente capita in un teatro d'opera, si sorride di gusto e ogni scena riempie gli occhi di meraviglia, senza smettere di godere per la deliziosa partitura. Rota riesce infatti nell'impresa di creare un flusso musicale continuo, privo di vere e proprie arie o numeri staccati, ma senza nemmeno mai scadere nel recitativo scarno: l'azione drammaturgica è sempre viva e vivace, e sempre mirabilmente attraenti sono le melodie, le armonie, gli andamenti.
Di altissimo livello il cast, soprattutto considerando che si tratta, in grande parte, di brillantissimi allievi dell'Accademia scaligera: Pierluigi D'Aloia è un Fadinard instancabile, con la verve e la versatilità mimica di un Baster Keaton e una vocalità duttilmente espressiva che sembra nata per questo personaggio. Accanto a lui la deliziosa Elena di Laura Lolita Perešivana, anche se la voce più applaudita è quella di Huanhong Li, un Nonancourt grottescamente minaccioso che si abbina perfettamente al timbro potente e tonitruante del basso cinese. La freschezza – mai acerba – del cast è un altro elemento che ci ha fatto adorare questa produzione, a cui l'esigente pubblico scaligero ha tributato applausi convinti e spesso (come all'uscita del regista) debordanti.
Come nella cornice meta-teatrale, che però vedrà il sogno diventare realtà, anche noi spettatori abbassato il sipario ci rendiamo conto di aver vissuto una meravigliosa illusione musicale, supportata dalla ricchezza di una messa in scena sontuosa e dalle tante idee registiche, musicali, e teatral-musicali.
E' il caso di dire… chapeau!