La gatta di Lidi, o dell'ipocrisia
di Franco Travaglio
Chiusi in una cella di marmo, prigionieri delle proprie bugie e dei propri fallimenti, i personaggi della nuova edizione de La gatta sul tetto che scotta di Tennessee Williams firmata da Leonardo Lidi e coprodotto dallo Stabile di Torino che lo ospita in prima nazionale al Carignano sono schegge impazzite di una realtà che conosciamo troppo bene, che risulta visionaria se pensiamo che il testo è stato scritto 67 anni fa. Le nevrosi, l'incapacità di accettare il quotidiano, l'impossibilità di una convivenza con sé stessi e gli altri sembrano riflettere la crisi esistenziale che affligge la società del nuovo millennio.
La vicenda ruota intorno a una famiglia – disfunzionale si direbbe oggi – in cui la malattia terminale del capostipite, ricchissimo latifondista, fa deflagrare liti, ripicche, odi e segreti inconfessabili ma nemmeno troppo celati, in quella che il regista definisce "presepe vivente", ma che somiglia più a una Passione, rappresentazione più dissacrante che sacra, rito collettivo allegorico dell'ipocrisia, che al crollare delle reciproche maschere in un crescendo di pulsioni auto-distruttive si rivela come unico, vano, motore delle azioni umane.
"Dall'ipocrisia ci si salva solo in due modi: morendo o bevendo" confessa al padre il protagonista, l'ex-atleta Brick, un moderno (povero) Cristo alcolizzato e martirizzato per le conseguenze di un rapporto omosessuale (?) con un compagno di squadra (che Lidi ci mostra, onnipresente, in carne ed ossa, mentre nell'originale era solo citato), della cui morte si ritiene responsabile.
Le 'madri dolenti' al suo capezzale sono due: la tenace moglie Margaret, che non si arrende alla fine del loro rapporto e arriva a simulare una gravidanza per non mollare l'eredità, e l'ingenua Mamma, che si rifugia in un mondo di bugie per non affrontare la malattia del marito e per combattere la forza centrifuga che sta per distruggere definitivamente la famiglia.
Nel ruolo del cattivo, il cinico Papà, che credendo di aver scampato il cancro, disprezza tutti e si permette il lusso di evitare le convenzioni ipocrite, almeno al chiuso delle mura domestiche, ma quando fronteggerà Brick, unico oggetto del suo affetto insieme all'appezzamento terriero milionario, gli sarà spiattelleta in faccia la verità della malattia e del fallimento della propria grettezza.
Non tutte le scelte di Lidi fanno centro, ci si chiede ad esempio il perché di un bizzarro uso dell'attrezzeria, dove una palla da baseball e uno specchio fanno stranamente le veci del telefono e di una porta, ma un cast azzeccato (vanno citati tutti: Valentina Picello, Fausto Cabra, Orietta Notari, Nicola Pannelli, Giuliana Vigogna, Giordano Agrusta, Riccardo Micheletti, Greta Petronillo e Nicolò Tomassini) e la potenza della prosa Williamsiana superano tutte le problematiche registiche e veicolano con grande pregnanza le riflessioni psicologiche e sociali suggerite dal dramma moderno.
"I could be great like Tennessee Williams/If I could only hear something that sounds like the truth" canta Elton John su testi di Bernie Taupin, centrando la grande dote del drammaturgo statunitense che sa ancora parlare alla contemporaneità col linguaggio della verità svelando i risvolti più drammatici e le problematiche più scottanti che ci aiutano a capire la vicenda umana grazie alle peculiarità del linguaggio teatrale moderno.