"Siamo tutti qualunque, ma lo siamo
poeticamente". Annota questa citazione da Jon Fosse, Valerio Binasco nelle note
di regia della sua ultima fatica per lo Stabile torinese, La Ragazza sul divano
del premio Nobel 2023.
E di quella poetica del quotidiano, dello squallore eroico
di piccoli personaggi apparentemente inutili ma quasi allegorici, intride tutta
la messa in scena vista al Carignano. Siamo in un interno piccolo borghese (le scene e le luci
sono di Nicolas Bovey, i costumi di Alessio Rosati), ma il velatino che separa la
stanza da letto appare all'inizio come un quadro in divenire, unendo arte e realtà.
Artista (mancata) è la protagonista antonomasticamente "Donna" (una superba
Pamela Villoresi) ma rigetta la propria arte perché consapevole del dono di "vedere"
ma non di quello di saper fissare su tela le sue visioni. Già, ma chi vede? Sé
stessa da Ragazza (Giordana Faggiano, efficace nel vestire il passaggio tra
ingenuità e disincanto) e i personaggi della sua giovinezza, diremmo la sua
famiglia se non fosse che la forza centrifuga (uno dei pochi elementi scenici è
una lavatrice, oggetto di consumo che divora costumi e accessori) di un
tradimento sta facendo deflagrare il nucleo degli affetti: la Madre (ma quant'è
brava Isabella Ferrari?), trascurata dal marito, un marinaio sempre
assente, trova consolazione, e sensi di colpa, nella relazione con l'empatico
Zio (un Michele Di Mauro sornione e maestro di misura).
Alla Ragazza non resta che rifugiarsi
sul divano, in bilico tra l'infanzia della bambola regalo del padre e i vestiti provocanti della sorella (Giulia Chiaramonte, grande prova da attrice accanto
a tanti mostri sacri) che ne demolisce cinica le illusioni. La Donna vive nella
sua maturità tutto il disagio nato dalla mancata accettazione di sé da parte
dei famigliare, e la risultante impossibilità ad accettarsi. Rimarrà sola, incapace
di accettare la relazione con l'Uomo (lo stesso Binasco, che si ritaglia il
cinismo mediocre di un personaggio che non lotta per i propri sentimenti ma si
lascia vivere alzando le spalle) ma nemmeno in grado di vivere da sola,
sopraffatta dalla noia, dalla rabbia e dalla presenza sempre più oppressiva dei
fantasmi del proprio passato.
Sta proprio nello spaccato sociale,
e nell'interessante meccanismo drammaturgico che alterna efficacemente personaggi
attuali e del passato, in un continuo flash-back che denota grande dimestichezza
nella scrittura teatrale, il fascino di questo testo, che dipinge con efficacia,
e senza dare soluzioni o messaggi, la disgregazione sociale e psicologica che
segna la crisi moderna dell'individuo, della famiglia, del senso di comunità,
che si riverbera nell'attitudine attendista e bloccata ("sdraiata" direbbe Michele
Serra) dei più giovani.
La donna sparirà, resa fantasma lei
stessa, nel suggestivo finale. Finirà dietro a un suo quadro, mancato, mai
finito e coperto da un pavido telo grigiastro. Come la sua esistenza.