Il coraggio di amare. Il coraggio di creare. Contro tutto e
tutti, contro le convenzioni sociali, le convenienze, il sentire comune, il
perbenismo, il quieto vivere. Seguire la passione e non sentire altro. Sono
tratti del personaggio immortale di Manon, al centro di una trilogia inedita,
che il Teatro Regio accarezza da tempo ed ha finalmente realizzato, e che mette
insieme tre "messe in musica e teatro" con tre grandi partiture: la pucciniana
Manon Lescaut, la Manon di Massenet e quella, prima in ordine cronologico, di Daniel
Auber. Lo dichiara, emozionato, il sovrintendente dell'Ente torinese Mathieu
Jouvin: "abbiamo avuto bisogno di tre opere per presentare appieno questo ruolo
così complesso". Ma quel coraggio è anche proprio dello stesso Puccini che si
appresta a comporre la sua Manon. 'Appena' trentacinquenne, reduce dalla non
esaltante accoglienza del suo "Edgar", il musicista si butta a capofitto in
questo nuovo soggetto quando il buon senso gli avrebbe suggerito di tenersene
alla larga: c'era già la versione di Auber, di grande successo, e Massenet,
infinitamente più celebre del giovane Giacomo, ne aveva già annunciata una
riscrittura. Eppure c'era qualcosa in quella trama, ispirata al romanzo
dell'abate Antoine François Prévost "Storia del cavaliere Des Grieux e di Manon
Lescaut", una passionalità assoluta, una sfrenata carnalità che non poteva che
toccare le corde di colui che trasfuse l'eros nel teatro musicale come nessun
altro prima e dopo di lui. Manon si fa guidare dall'istinto, sia esso l'amore
per lo squattrinato studente Des Grieux, sia esso la voglia di lusso, di
assaporare tutti gli aspetti della vita mondana parigina, che la spinge tra le
braccia di Geronte. Non c'è praticamente (altro) intreccio se non le
conseguenze, fatali, delle passioni di Manon e di chi lei trascina con sé verso
lo sprofondo, ché la vita è impietosa nei confronti di chi la prende a morsi.
Il successo fu invece travolgente per la Lescaut pucciniana,
lanciando definitivamente la sua carriera sulle ali di una partitura
volutamente ipertrofica, agghindata di tutti gli effetti speciali sinfonici
puntute frecce al suo arco, tanto da essere bacchettato da un invidioso Verdi
che gli rimproverò la mancata concentrazione sulla predominanza vocale rispetto
ai pieni orchestrali.
In tanta esibizione di coraggio ci si aspettava la stessa
audacia creativa da parte del nuovo allestimento del Regio, invece le scelte di
Arnaud Bernard si limita a un compitino piuttosto sterile, contando sullo
sfarzo delle scenografie firmate da Alessandro Camera e gli stilosi costumi di Carla
Ricotti. L'idea del 'cinema nel teatro' (le prime scene sono viste come durante
le riprese di un film, con tanto di riflettori, cineprese e attori che a volte
tengono in mano la sceneggiatura) sarebbe originale se non venissimo da una
Fanciulla del West con il medesimo approccio e un Gianni Schicchi ambientato su
un set televisivo. Più presenti però in questo allestimento sono le proiezioni
di materiale cinematografico di repertorio (dalla stessa 'Manon' di
Henri-Georges Clouzot a 'Les Enfants du Paradis' e 'Pépé le Moko' di Jean
Grémillon). La scelta risulta spesso però un ripiego per ovviare allo scarso
fisique du role di alcuni interpreti (il Des Grieux di Roberto Aronica, pur
dalla voce calda e sublime, si rivela, per stazza ed età, uno studente molto
ripetente..), visto che in molte scene smettiamo di guardare i cantanti
assorbiti come siamo dalle immagini gigantesche tratte da pagine immortali
della cinematografia degli anni '30 e 40. Eppure il lavoro sul personaggio
della magnifica Erika Grimaldi, che mette al servizio del personaggio la sua estatica
e duttile vocalità a esaltare le struggenti melodie pucciniane, è stato davvero
importante, così come per tutti gli altri componenti del cast.
Aspettiamo le altre due Manon, ispirate ad altre due epoche
cinematografiche, per comporre il puzzle di questo meraviglioso personaggio,
sperando di ritrovare la sua disperata passionalità anche nell'aspetto visivo
della messa in scena.