VERONA – Tutti conoscono Sir Andrew Lloyd Webber; non tutti
lo amano. È l'intelligente gentiluomo britannico che ha fatto di Gesù una
superstar, di Evita Peron una santa glamour, di una cucciolata di gatti da
spettacolo un camaleonte stilistico e di un deforme musicista nascosto nei
sotterranei dell'Opera di Parigi il più famoso fantasma del teatro musicale.
Ecco allora un'opera inconsueta di Andrew Lloyd Webber, il suo Requiem scritto a metà Anni Ottanta, che ci mostra il compositore stavolta alle prese con la musica sacra, sempre più sontuoso, quasi classico, dai toni
elevati e dalla quintessenza commerciale.
Lo scorso venerdì 19 aprile, davanti a una folla
discretamente elegante e devota, questa
opera di Lloyd Webber ha varcato i magnifici portali del prestigioso Teatro Filarmonico di Verona.
Il Requiem di Lloyd Webber non è concepito come una
composizione su larga scala dell'ordine di Verdi, Mozart, Brahms, Mahler, Faure
o Britten. Qui si tratta piuttosto di un'impostazione più intima dell'opera, in
termini teatrali simili a quelli di Jesus Christ Superstar, che esprime
il testo liturgico in termini melodici molto personali. Egli pone le voci in
estremo contrasto l'una con l'altra: il tenore è Everyman (noi), che prega e
celebra l'imminente liberazione di coloro che soffrono per la morte. Il suo
gioioso ''Osanna... Benedictus'' è tagliato all'improvviso dal Soprano
angosciato, che è in realtà la voce 'grande' del giudizio in quest'opera.
L'acuto rappresenta la voce di coloro che sono intrappolati nel purgatorio e
cercano la liberazione attraverso la salvezza. Il tenore è quindi una voce che
emerge a fatica dalla terra per gridare a Dio, mentre è continuamente tagliato
fuori dalle voci degli altri solisti che ci ricordano la paura del giudizio, la
desolazione del purgatorio e il grido dal deserto per essere salvati
dall'abbandono. Vi si ritrovano elementi delle composizioni di teatro musicale
di Bernstein e Lloyd Webber. Non è l'impostazione più letterale del testo come
Messa, ma non è certo un fallimento come trattamento teatrale della liturgia.
Nessun compositore può affrontare una Messa per i defunti
come se fosse semplicemente il prossimo punto della sua lista di numeri
d'opera, certamente non se l'impulso a scriverla è un lutto privato (il Requiem
di Lloyd Webber è iscritto alla memoria di suo padre, e aveva anche in mente la
morte di un amico a causa di un attacco terroristico). Il testo e l'occasione
richiedono una risposta personale e lui stesso lo descrive come ''la più
personale di tutte le mie composizioni''. Poiché non si tratta, per la maggior
parte, di un Requiem alla maniera di Evita o Cats, possiamo presumere
che Lloyd Webber consideri la loro maniera come il suo stile ''pubblico'',
quello predominante, in qualche misura come una ''maschera'' che ha preso per
quegli spettacoli e in quelle determinate occasioni.
Sospetto che si sbagli, e che lo stile pubblico sia in
realtà più ''personale'' di quello adottato per il Requiem. Rimuovendo la
maschera pubblica, Lloyd Webber pare rivelare semplicemente l'eredità musicale e la sua memoria
musicale, le materie prime non digerite di uno stile piuttosto che lo stile
stesso. L'eredità (suo padre era un noto organista e accademico, e Lloyd Webber
è cresciuto in mezzo alla tradizione corale anglicana) si manifesta in una
facilità di scrittura di inni (l'apertura dell'Offertorium è su una linea
proiettata da Stanford attraverso Howells), il più importante dei ricordi, a
parte Orff (occasionale) e Puccini (più frequente),
sono Faure (fuso con Puccini e forse con un tocco di Virgil Thomson nel dolce
come uno sciroppo del ''Pie Jesu''), Weill (una marcia impettita per il
''Confutatis maledictis''), Mahler (una figura ricorrente di tre note - sesta
in caduta, ottava in salita - dall'Ottava Sinfonia) e forse Messiaen (la frase
di otto note che è alla base del ''Recordare'' sembra scritta pensando alle
ondes Martenot).
Individuare le derivazioni è un gioco facile, naturalmente,
ma diminuiscono, per usare un eufemismo, il numero di occasioni in cui la
personalità musicale di Lloyd Webber è percepibile. Ci si aspetta che questo
accada nelle melodie stesse - dopotutto ha raggiunto il suo successo imprimendo
le melodie nella memoria collettiva - ma ahimè le melodie qui sono tutte di
breve respiro, spesso iniziano in modo promettente ma si esauriscono dopo una
battuta o poco più, e quasi nessuna di esse è memorabile salvo alcuni evidenti
echi dei suoi musical più noti (Jesus, Cats, Phantom).
L'unica eccezione è l'Osanna, la cui melodia, sebbene breve e ripetuta
all'infinito, ha almeno un vigore sincopato revivalista. Si tratta, credo, di
un'idea scomposta, forse volgare (nel senso di popolare) e banale, ma è
innegabilmente una melodia, e con una certa irritazione mi sono sorpreso a
fischiettarla l'indomani. È l'unico momento, sospetto, in cui il vero Andrew
Lloyd Webber si fa notare.
La critica non è stata molto generosa con Lloyd Webber, così
come non lo è stata con gran parte del lavoro di Bernstein. ''Rimanete nel
teatro musicale!'' è un mantra denigratorio comune a queste persone, di coloro i quali sembrano non sopportare chi, con bassi antecedenti, osa provare a produrre
musica ''seria''. Ma nella sua forma attuale, il Requiem di Lloyd Webber, pur
non essendo musicalmente unitario come quello di Faure o di Verdi, fa ciò che
si prefigge con temi che ritornano e passaggi molto melodiosi che esprimono la
sua personale angoscia e il suo dolore.
Lloyd Webber può non essere il più originale dei pensatori.
Ma pensa in grande - non glielo si può togliere - ed è, senza dubbio, uno dei
più facili cucitori. In effetti, quando si tratta di cucire, è un virtuoso.
La cucitura del suo Requiem prevede un po' di severa purezza
nello stile di Benjamin Britten (ricordate il "Requiem di guerra"?) e
un po' di funk neo-religioso alla maniera di Leonard Bernstein (ricordate la
"Messa"?).
Nessuno può accusare Lloyd Webber di aver scritto musica
brutta o monocromatica o dalle cattive intenzioni o inaccessibile. Lo si può
accusare, invece, di aver scritto musica che dà all'eclettismo una reputazione
intelligentemente (e genialmente!) commerciale. Ma è un delitto? Probabilmente no.
Eccellenti i protagonisti della serata veronese (e teniamo
conto che il confronto era davvero arduo, visto che l'unico documento
registrato ha come protagonisti personaggi del calibro di Lorin Maazel sul podio, mentre
i solisti erano Plácido Domingo e Sarah Brightman). Enea Scala ha fatto esplodere i suoi facili assoli con il fervore
di un artista navigato e a suo agio. Gilda Fiume ha cantato in modo
sontuoso, fino a un Re acuto etereo e senza vibrazioni, incurante delle
orchestrazioni che hanno seppellito il suo fragile timbro. Il giovane Lorenzo Pigozzo è adeguatamente
angelico nelle pagine faureiane con un timbro cristallino che si fa ricordare.
Coro e orchestra, insieme alla sicura direzione
di Ryan McAdams sanno affrontare
ogni climax coloratissimo con un'energia inarrestabile. Applausi.