REQUIEM di A. Lloyd Webber

27.04.2024

di Alessandro Caria

VERONA – Tutti conoscono Sir Andrew Lloyd Webber; non tutti lo amano. È l'intelligente gentiluomo britannico che ha fatto di Gesù una superstar, di Evita Peron una santa glamour, di una cucciolata di gatti da spettacolo un camaleonte stilistico e di un deforme musicista nascosto nei sotterranei dell'Opera di Parigi il più famoso fantasma del teatro musicale.

Ecco allora un'opera inconsueta di Andrew Lloyd Webber, il suo Requiem scritto a metà Anni Ottanta, che ci mostra il compositore stavolta alle prese con la musica sacra, sempre più sontuoso, quasi classico, dai toni elevati e dalla quintessenza commerciale. 

Lo scorso venerdì 19 aprile, davanti a una folla discretamente elegante e devota, questa opera di Lloyd Webber ha varcato i magnifici portali del prestigioso Teatro Filarmonico di Verona.

Il Requiem di Lloyd Webber non è concepito come una composizione su larga scala dell'ordine di Verdi, Mozart, Brahms, Mahler, Faure o Britten. Qui si tratta piuttosto di un'impostazione più intima dell'opera, in termini teatrali simili a quelli di Jesus Christ Superstar, che esprime il testo liturgico in termini melodici molto personali. Egli pone le voci in estremo contrasto l'una con l'altra: il tenore è Everyman (noi), che prega e celebra l'imminente liberazione di coloro che soffrono per la morte. Il suo gioioso ''Osanna... Benedictus'' è tagliato all'improvviso dal Soprano angosciato, che è in realtà la voce 'grande' del giudizio in quest'opera. L'acuto rappresenta la voce di coloro che sono intrappolati nel purgatorio e cercano la liberazione attraverso la salvezza. Il tenore è quindi una voce che emerge a fatica dalla terra per gridare a Dio, mentre è continuamente tagliato fuori dalle voci degli altri solisti che ci ricordano la paura del giudizio, la desolazione del purgatorio e il grido dal deserto per essere salvati dall'abbandono. Vi si ritrovano elementi delle composizioni di teatro musicale di Bernstein e Lloyd Webber. Non è l'impostazione più letterale del testo come Messa, ma non è certo un fallimento come trattamento teatrale della liturgia.

Nessun compositore può affrontare una Messa per i defunti come se fosse semplicemente il prossimo punto della sua lista di numeri d'opera, certamente non se l'impulso a scriverla è un lutto privato (il Requiem di Lloyd Webber è iscritto alla memoria di suo padre, e aveva anche in mente la morte di un amico a causa di un attacco terroristico). Il testo e l'occasione richiedono una risposta personale e lui stesso lo descrive come ''la più personale di tutte le mie composizioni''. Poiché non si tratta, per la maggior parte, di un Requiem alla maniera di Evita o Cats, possiamo presumere che Lloyd Webber consideri la loro maniera come il suo stile ''pubblico'', quello predominante, in qualche misura come una ''maschera'' che ha preso per quegli spettacoli e in quelle determinate occasioni.

Sospetto che si sbagli, e che lo stile pubblico sia in realtà più ''personale'' di quello adottato per il Requiem. Rimuovendo la maschera pubblica, Lloyd Webber pare rivelare semplicemente l'eredità musicale e la sua memoria musicale, le materie prime non digerite di uno stile piuttosto che lo stile stesso. L'eredità (suo padre era un noto organista e accademico, e Lloyd Webber è cresciuto in mezzo alla tradizione corale anglicana) si manifesta in una facilità di scrittura di inni (l'apertura dell'Offertorium è su una linea proiettata da Stanford attraverso Howells), il più importante dei ricordi, a parte Orff (occasionale) e Puccini (più frequente), sono Faure (fuso con Puccini e forse con un tocco di Virgil Thomson nel dolce come uno sciroppo del ''Pie Jesu''), Weill (una marcia impettita per il ''Confutatis maledictis''), Mahler (una figura ricorrente di tre note - sesta in caduta, ottava in salita - dall'Ottava Sinfonia) e forse Messiaen (la frase di otto note che è alla base del ''Recordare'' sembra scritta pensando alle ondes Martenot).

Individuare le derivazioni è un gioco facile, naturalmente, ma diminuiscono, per usare un eufemismo, il numero di occasioni in cui la personalità musicale di Lloyd Webber è percepibile. Ci si aspetta che questo accada nelle melodie stesse - dopotutto ha raggiunto il suo successo imprimendo le melodie nella memoria collettiva - ma ahimè le melodie qui sono tutte di breve respiro, spesso iniziano in modo promettente ma si esauriscono dopo una battuta o poco più, e quasi nessuna di esse è memorabile salvo alcuni evidenti echi dei suoi musical più noti (Jesus, Cats, Phantom). L'unica eccezione è l'Osanna, la cui melodia, sebbene breve e ripetuta all'infinito, ha almeno un vigore sincopato revivalista. Si tratta, credo, di un'idea scomposta, forse volgare (nel senso di popolare) e banale, ma è innegabilmente una melodia, e con una certa irritazione mi sono sorpreso a fischiettarla l'indomani. È l'unico momento, sospetto, in cui il vero Andrew Lloyd Webber si fa notare.

La critica non è stata molto generosa con Lloyd Webber, così come non lo è stata con gran parte del lavoro di Bernstein. ''Rimanete nel teatro musicale!'' è un mantra denigratorio comune a queste persone, di coloro i quali sembrano non sopportare chi, con bassi antecedenti, osa provare a produrre musica ''seria''. Ma nella sua forma attuale, il Requiem di Lloyd Webber, pur non essendo musicalmente unitario come quello di Faure o di Verdi, fa ciò che si prefigge con temi che ritornano e passaggi molto melodiosi che esprimono la sua personale angoscia e il suo dolore.

Lloyd Webber può non essere il più originale dei pensatori. Ma pensa in grande - non glielo si può togliere - ed è, senza dubbio, uno dei più facili cucitori. In effetti, quando si tratta di cucire, è un virtuoso.

La cucitura del suo Requiem prevede un po' di severa purezza nello stile di Benjamin Britten (ricordate il "Requiem di guerra"?) e un po' di funk neo-religioso alla maniera di Leonard Bernstein (ricordate la "Messa"?).

Nessuno può accusare Lloyd Webber di aver scritto musica brutta o monocromatica o dalle cattive intenzioni o inaccessibile. Lo si può accusare, invece, di aver scritto musica che dà all'eclettismo una reputazione intelligentemente (e genialmente!) commerciale. Ma è un delitto? Probabilmente no.

Eccellenti i protagonisti della serata veronese (e teniamo conto che il confronto era davvero arduo, visto che l'unico documento registrato ha come protagonisti personaggi del calibro di Lorin Maazel sul podio, mentre i solisti erano Plácido Domingo e Sarah Brightman). Enea Scala ha fatto esplodere i suoi facili assoli con il fervore di un artista navigato e a suo agio. Gilda Fiume ha cantato in modo sontuoso, fino a un Re acuto etereo e senza vibrazioni, incurante delle orchestrazioni che hanno seppellito il suo fragile timbro. Il giovane Lorenzo Pigozzo è adeguatamente angelico nelle pagine faureiane con un timbro cristallino che si fa ricordare. Coro e orchestra, insieme alla sicura direzione di Ryan McAdams sanno affrontare ogni climax coloratissimo con un'energia inarrestabile. Applausi.

Alessandro Caria

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