Scene da una Sarabanda

04.04.2025

di Franco Travaglio

Trent'anni dopo "Scene da un matrimonio" il drammaturgo-regista Ingmar Bergman torna sulla scena del 'delitto' e ritrova gli stessi personaggi (interpretati nella prima esecuzione televisiva dagli stessi attori) alle prese con altre nevrosi, più amari, angosciati e impotenti di prima, a sottolineare l'impossibilità da parte dell'uomo di costruire legami fecondi senza rovinarli col proprio egoismo, l'insopprimibile attitudine di usare l'altro per i propri scopi praticando il ricatto dei sentimenti, l'amore possessivo portato a livelli patologici, il plagio, la crudeltà domestica, il nichilismo, l'odio che diventa atavico e finisce per distruggere più chi lo agisce che chi lo subisce.

Tutto questo è "Sarabanda", andato in scena per lo Stabile di Torino con un poker di attori eccellenti alle prese con un allestimento di rara misura, intensità, pulizia visiva e concettuale firmato da Roberto Andò, non a caso, come il maestro svedese, autore sospeso tra palcoscenico e grande schermo.

Un diaframma rettangolare costituito da pannelli verticali e orizzontale scorrevoli delinea lo spazio scenico, ritagliando via via, come un montaggio cinematografico, primi piani, campi e controcampi, scene di insieme, duetti, guidando l'attenzione dello spettatore con grande precisione e implacabile chiarezza.

Nella trama anche per i personaggi sono passati trent'anni: Marianne fa visita all'ex-marito Johan che, ormai anziano, vive in solitudine nella sua casa di campagna. A poca distanza fisica, ma con in mezzo anni di astio e odio reciproci, vive il figlio Henrik, vedovo e morbosamente legato alla figlia Karin rimasta dopo il lutto la sua unica ragione di vita. La soffoca con un amore eccessivo che sfiora l'incesto, e tarpa le ali della sua promettente carriera da violoncellista obbligandola a studiare ed esibirsi con lui solo. La ragazza è combattuta tra il riscatto che le suggeriscono la voglia di libertà e di indipendenza, e il ricatto psicologico paterno, che se abbandonato minaccia il suicidio.

Una tragedia familiare claustrofobica in cui i rapporti tossici si toccano con mano e ci appaiono entomologicamente nella nitida chiarezza con cui osserveremmo degli insetti muoversi prigionieri dietro al vetrino di un microscopio. Ma non proviamo né pena né compassione per loro, tanto ci sembrano tutti vittime di loro stessi, passivi martiri di pene masochisticamente auto-inflitte.

Marianne ha un ruolo di confidente, essendo ormai ai margini della famiglia, ma suo malgrado è ancora molto affezionata a Johan: Alvia Reale le dona, con grande misura e verità, sfumature di senso pratico venato dal distacco di chi ha già sofferto troppo per farsi coinvolgere, ma risulta l'unico personaggio sano, dotato di buon senso e capace di tenerezze gratuite.

Renato Carpentieri dona a Johan la sua voce profonda e la sua capacità di dare peso a ogni parola recitata, ma soprattutto alle pause, alle intenzioni, al non detto, e costruisce un personaggio ieratico, giocato sul cinico disprezzo dell'altro. Anche quando sembra mosso dall'affetto per la nipote esprime in realtà l'odio per il figlio, da cui vuole che la ragazza si allontani. Un uomo intrattabile, sprezzante, quasi bestiale, che solo alla fine rivela la sua desolante fragilità.

Elia Schilton interpreta un Henrik untuoso, viscido. E' portatore di una tale deformità sentimentale da rendercelo quasi irreale, ma purtroppo gli uomini come lui non abitano in un castello irreale ma sono nelle nostre famiglie, davvero troppi per poterli liquidare con un epiteto da cattivi Disney.

Infine la giovanissima Caterina Tiegh, alle prese con un ruolo di grande complessità, restituisce tutta l'angoscia e il conflitto interiore di Karin senza risultare né patetica né isterica, rivelandosi la chiave di volta di tutta la costruzione drammaturgica.

Roberto Andò, che nelle sue ultime prove cinematografiche ("La Stranezza" e "L'Abbaglio") ha convinto tutti con la sua abilità nell'affrontare temi sulla carta molto impegnativi rendendoli grazie alla propria abilità narrativa leggeri e fruibili, non si smentisce e costruisce un thriller psicologico lineare e affascinante, giocato sulle poche scelte visive di cui si è detto, e sfrutta al meglio il notevole materiale attoriale a sua disposizione.

Nella scena finale, in cui vediamo tutti i personaggi dalle spalle in sù, nudi alla meta nel fronteggiare l'angoscia per la morte, si tirano le fila di tutta la vicenda.

Da un lato l'arte assume il ruolo catartico di raccontare questa angoscia esistenziale, dall'altro è un rifugio dall'impossibilità tutta umana di vivere insieme e delinea il tentativo di una comunità costruita non sul narcisismo ma sulla cooperazione. Non a caso Karin rifiuta di eseguire l'ultima Sarabanda col padre che la vuole spingere a una carriera solista, ma decide di iscriversi a un programma corale, ed entrare in un'orchestra in cui dividere soddisfazioni e pressioni psicologiche.

In questa visione, non si sa se poi davvero realizzata dalla ragazza, c'è l'unico spiraglio di luce nell'oscuro montaggio di incomunicabilità della Sarabanda Bergmaniana.

Franco Travaglio

MuTeVoLi © Tutti i diritti riservati 2023
Creato con Webnode Cookies
Crea il tuo sito web gratis!